Intervista con Maria Bashir

Maria Bashir - Procureure générale Province d'Hérat

Maria Bashir – Photo Geneviève Gagné

Seduta dietro un’imponente scrivania con la foto del presidente Hamid Karzai sullo sfondo, Maria Bashir, l’unica procuratrice generale in tutto l’Afghanistan, si scusa per la sua scarsa conoscenza dell’inglese. Con un hijab tirato delicatamente all’indietro che lascia intravedere una striscia di capelli neri, si gira verso l’interprete e racconta il suo duro lavoro in un paese che ha trascorso gli ultimi trent’anni in guerra. Dal 2009 occupa il posto di procuratrice generale della provincia ovest di Herat, sotto controllo italiano, e prova in tutti modi di promuovere i diritti delle donne afgane spesso non tutelate. Il suo coraggio esemplare non è privo di rischi, infatti, esercita il suo lavoro circondata da 23 guardie del corpo, e riceve minacce di morte tutti i giorni. L’anno scorso, la Bashir ha seguito 258 casi tra cui molti di donne che si uccidevano dandosi fuoco situazione che spesso significa l’unica via d’uscita ad abusi e violenze. Considerata una delle 100 persone più influenti al mondo secondo la rivista americana Times, gestiva una scuola clandestina per ragazze situata nella propria abitazione durante il regime talebano e ora teme l’avvento di un altro regime autoritario che vanifichi i suoi sforzi.

Come prevede il passaggio di consegne dalle forze straniere alle forze di sicurezza afghane e il ritiro totale delle forze della Nato che avverrà nel 2014?

«Penso che sia troppo presto lasciare l’Afghanistan da sola. Non abbiamo ancora delle buone infrastrutture, ma soprattutto, sono preoccupata del futuro delle donne. Dobbiamo essere sicuri che la comunità internazionale continuerà a cooperare e migliorare il livello di vita degli Afgani».  

Pensa che fra due anni il suo lavoro sarà a rischio?

«Il mio lavoro è sempre a rischio, ricevo delle minacce di morte ogni giorno. L’anno scorso vicino a casa mia un kamikaze si è fatto esplodere ferendo due guardie del corpo. Essere un procuratore donna in Afganistan ed esercitare il potere di mandare uomini in galera è piuttosto complicato e non piace agli uomini».

E cosa pensa del suo lavoro suo marito?

«Mio marito? È un uomo Afgano! [ridendo] Però è una persona istruita che lavora come imprenditore. È solo preoccupato dalla pericolosità del mio lavoro».   

Visto le condizioni difficili in cui si lavora, dove trova il coraggio di continuare a lottare per i diritti delle donne?

«Mi piace lavorare per aiutare le donne. Voglio essere sicura che l’Afghanistan sia una nazione anche per le donne afgane e non solo per gli uomini. Da quando ho iniziato a lavorare c’erano solo due donne procuratrice nel mio ufficio, adesso ce ne sono 12 che si occupano di violenze domestiche e diritti per le donne. Ma non solo, sono anche una madre, ho tre figli: due maschi di 18 e 13 anni e una figlia di 16. Voglio dare a mia figlia un futuro migliore».

Quale sarebbe il peggiore crimine subito dalle donne secondo lei?

«Sono i matrimoni forzati con ragazzine minorenni perché non hanno nessun diritto e non possono neanche dare il loro parere su chi vogliano sposare.»

Quanti anni aveva la sposa più giovane?

«Lei aveva 8 anni e il suo futuro marito ne aveva 45».

Può spiegare la procedura attuata per contrastare questo tipo di violenze?

«Abbiamo aperto da un anno un reparto speciale per le violenze commesse sulle donne e fino ad adesso abbiamo raggiunti dei risultati positivi. Il nostro obiettivo sarebbe quello di fermare tutti i tipi di violenze subite dalle donne nella provincia. Almeno 60% dei casi sono quelli di mariti che picchiano le loro mogli. Ci sono delle donne coraggiose che denunciano il marito, in questi casi mandiamo due procuratori nella casa della vittima per assicurarci che lei stia bene e che non sia più vittima di altri atti di violenza. Facciamo firmare al marito un documento in cui giura che non picchierà mai più sua moglie. Dal momento lui vive con la paura delle conseguenze».

La città di Herat è più aperta di altre, ma nonostante ciò ci sono ancora tante donne che indossano il burqa. Secondo lei ci vorrà ancora un lungo processo educativo per eliminarlo completamente della cultura afgana?

«Si. È un grande problema che abbiamo soprattutto per colpa degli uomini che vogliono avere tutto il potere. Parliamo con loro per incoraggiarli ad essere più aperti e per diffondere i diritti delle donne. Non dimentichiamo che non è scritto da nessuna parte del Corano che la donna deve coprire il viso».     

Lei non si occupa solo della sorte delle donne, ma anche di altri crimini come il traffico dell’oppio. Come mai c’è stato un incremento di narcotici negli ultimi dieci anni, da quando è iniziato l’intervento della NATO?

«Ci sono tre fattori che hanno causato questo incremento. Il primo è la mancanza di controllo riguardo alla coltivazione dell’oppio. Secondo, è l’importante domanda che proviene dai nostri vicini come l’Iran e il Pakistan quindi per chi volesse fare soldi, è un lavoro sicuro. Con un’economia carente come la nostra e un alto tasso di disoccupazione e nessuna possibilità di trovare lavoro, la coltivazione dell’oppio in Afghanistan è un’opportunità di lucro. La terza è perché non c’è protezione sulle frontiere con l’Iran e il Pakistan. Le frontiere si diramano per molti chilometri e la polizia afgana non riesce a controllarle bene per mancanza di equipaggiamento. Di conseguenza, c’è molta corruzione anche perché non c’è abbastanza formazione degli agenti».

Appunto, visto l’alto tasso di corruzione nel paese, come fa il suo lavoro ad non esserne condizionato?

«Purtroppo in Afghanistan, il livello di corruzione è troppo alto e il governo afgano insieme alla comunità internazionale non sono riusciti a fermarlo. Non ci sono regole e leggi specifiche per sradicarla. Nel mio ufficio ho licenziato sette impiegati perché ho scoperto che erano corrotti però il vero problema è che qui, ma anche in altre organizzazioni, gli impiegati non vengono pagati adeguatamente. È quello il vero problema della corruzione, il basso stipendio».

Che messaggio vorrebbe dare agli stranieri che guardano il suo paese dall’esterno?

«Gli stranieri non dovrebbero pensare che tutti gli Afgani non siano brave persone. Abbiamo persone che amano il loro paese e che hanno voglia di costruire un Afghanistan migliore sotto tutti gli aspetti. Vorrei dire agli stranieri che devono essere pazienti se vogliono vedere un miglioramento della nostra nazione».